“PERCHE’ IO?” LA TESTIMONIANZA DI SAMI MODIANO
Oggi, 16 febbraio 2020, la nostra scuola, l’istituto Di Vittorio-Lattanzio, ha avuto il piacere di ospitare Sami Modiano, sopravvissuto alla tragedia dell’olocausto dopo aver passato sei interminabili mesi nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.
“Il lavoro rende liberi”: questa l’ingannevole affermazione che apre le porte di quel luogo di morte e di dolore dal quale quasi nessuno è riuscito ad uscire vivo.
“Secondo te io sono diverso da voi? Ho due bocche? Ho due nasi?”, così Sami Modiano ha iniziato il suo racconto.
E’ partito dal principio, parlando della sua infanzia felice condivisa con la sua famiglia: il padre Giacobbe, la mamma Diana e la sorella Lucia.
Nato a Rodi, un’isola del Mar Egeo, è un bambino come gli altri, studia con dedizione in una scuola maschile ed è motivo di grande orgoglio sia per i suoi genitori che per gli insegnanti.
Rodi è popolata da diverse comunità, ebraica, ortodossa, musulmana-turca, cristiana ed è come una grande famiglia che affonda le sue radici nel rispetto reciproco e nella formazione culturale dei giovani.
L’armonia che governa la vita di Sami si rompe nel momento in cui, in terza elementare, in un giorno come tanti, il suo insegnante pronuncia la frase “Sami Modiano sei espulso da questa scuola”, dicendo al piccolo Sami in lacrime di chiedere spiegazioni al padre, il quale con un giro di parole gli fa capire che la sua “colpa” è semplicemente quella di essere ebreo.
Sami non capisce e inizia a domandarsi “perché proprio io?”, domanda a cui per quasi tutta la vita non è riuscito a dare risposta.
Finisce cosi il suo percorso d’istruzione, afferma infatti: “la mia cultura è stata solo quello che la vita mi ha dato”.
A causa delle leggi razziali molti cittadini ebrei vengono licenziati, è il caso ad esempio del padre di Sami, gli viene vietato addirittura di comprare il giornale o di riunirsi in gruppo poiché sospettati di complottare.
Nel 1941 Sami subisce il primo duro colpo della sua vita, la madre malata di cuore viene a mancare durante una crisi e la sorella Lucia è costretta a prendere il suo posto.
Nel Settembre 1943 l’Italia decide di rompere l’alleanza con la Germania, la quale invia una squadra a Rodi per tenerla sotto il suo dominio data la posizione strategica.
Il 18 Luglio 1944 i capofamiglia della comunità ebraica vengono convocati per un controllo in un edificio dell’ex aeronautica italiana, lì gli vengono sequestrati i documenti e vengono rinchiusi.
Il 20 Luglio 1944 gli ebrei di Rodi vengono costretti con l’inganno a lasciare le loro abitazioni forniti di vestiti, provviste e soprattutto oggetti di valore.
Gli viene detto che sarebbero stati portati in un luogo ignoto dove avrebbero dovuto lavorare, non riescono nemmeno ad immaginare ciò che li aspetta al termine del viaggio.
Vengono caricati su dei battelli del trasporto bestiame, chiusi nelle stive ancora contaminate dagli escrementi degli animali e gli vengono lasciati cinque secchi d’acqua e un bidone vuoto che sarebbero dovuti bastare per cinquecento persone per tutto il viaggio, durato tre giorni.
Il 3 Agosto vengono spostati su un treno in una stazione greca, si trovano in vagoni di legno che devono contenere quasi cento persone sotto il sole di agosto, ci troviamo di fronte all’anteprima delle camere a gas.
Il treno sosta di tanto in tanto e alcuni contadini passano del cibo attraverso le fessure.
Il 16 Agosto giungono a destinazione, appena scesi dal treno notano la particolarità del luogo, filo spinato e baracche in ogni angolo.
I soldati tedeschi danno l’ordine di lasciare tutti gli averi sul treno e di mettersi in fila.
A questo punto vengono separati, gli uomini da una parte e le donne da un’altra. Sami racconta di aver visto il padre picchiato dai soldati tedeschi perché non voleva lasciar andare Lucia, che alla fine gli viene portata via.
C’è un medico, Josef Mengele, colui che tutti conoscono come “l’angelo della morte” che in pochi secondi decide la sorte di ognuna di quelle persone.
Con un semplice gesto della mano divide in due parti il gruppo, a sinistra va chi deve essere portato subito a morire: gli anziani, i bambini e tutte le persone non adatte ai lavori forzati.
A destra invece va chi è in grado di lavorare, come Sami e suo padre.
Successivamente fanno ingresso nel campo dove gli viene ordinato di denudarsi per poter essere perquisiti, subito dopo gli viene permesso di fare una doccia e gli vengono consegnati un pigiama a righe, un cappello e un paio di zoccoli di legno.
Giunge quindi il momento in cui vengono privati della loro dignità di uomini, ad ognuno viene tatuato un numero sul braccio che diventa la loro unica identità: da quel momento non sono più persone, sono solo numeri.
Sami porta sul braccio il numero B7456.
Viene portato insieme al padre nel lager A, costituito da venti baracche numerate, Sami finisce nella numero 11, Giacobbe nella numero 15.
La mattina si svegliano presto e dopo l’appello vengono portati a lavorare per dodici ore senza sosta, chi “fa il furbo” e non si presenta viene ucciso all’istante.
La cena consiste in un chilo di pane da dividere per otto persone e ogni tanto una ciotola di minestra che Sami definisce “acqua sporca”.
Una sera decide di andare a trovare il padre ed è proprio davanti a lui che esprime il desiderio di rivedere sua sorella Lucia che si trova nel lager B.
Così inizia a spingere lo sguardo sempre più spesso oltre il filo spinato e dopo qualche giorno vede la sagoma di Lucia, ormai quasi irriconoscibile, che lo saluta con la mano. Da quel momento iniziano a vedersi regolarmente fino al giorno in cui lei non si presenta più all’appuntamento, Sami non perde le speranze, ma dopo qualche giorno si arrende all’idea di averla persa per sempre e lo comunica al padre, il quale giunto all’esaurimento dice addio al figlio e si abbandona alla morte presentandosi la mattina seguente all’ambulatorio.
Nel mese di novembre Sami viene spostato nel lager D, dove fa la conoscenza di Piero Terracina. I due fanno amicizia e diventano uniti come se tra loro ci fosse un legame di sangue, dal momento che entrambi si trovano nella stessa condizione avendo perso tutto e tutti.
Ai princìpi del 1945 la guerra sta giungendo al termine e i tedeschi iniziano i loro tentativi di nascondere gli orrori commessi negli anni passati.
Il 27 Gennaio 1945 i soldati russi liberano i prigionieri di Auschwitz-Birkenau.
Insieme a pochi altri, Sami esce vivo da quell’inferno.
Fino al 2005 Sami Modiano si è rifiutato di raccontare la sua storia, poi spinto da sua moglie e dall’amico Terracina, ha iniziato a girare il mondo entrando nei cuori di milioni di persone con la sua testimonianza.
Noi ragazzi gli abbiamo rivolto diverse domande, ma sicuramente quella che sorge spontanea a chiunque quando ascoltando una storia come la sua è “che cosa l’ha spinta a ricostruirsi una vita dopo la liberazione?”.
La sua risposta è stata molto significativa e ci ha colpito nel profondo, ha affermato che per tutta la vita si è chiesto “perché proprio io?” e per anni non è riuscito a spiegarselo. Poi però siamo arrivati noi, noi che lo ascoltiamo con le lacrime agli occhi ed ha capito tutto, il cerchio si è chiuso ed ha finalmente trovato una risposta ai suoi perché.
A cura delle classi 3J,3G,3L del DiVittorio-Lattanzio